Il 1969 è, per la storia, l’anno nel quale Gheddafi prese il potere in Libia. Ben 9 mesi prima, con una incredibile tempestività, venne presentato alle finali di Canzonissima – programma tv dai maggiori ascolti dell’epoca – un pezzo che, dal titolo, per noi Italiani d’Africa, suona davvero visionario: Tripoli 1969.
La cantava una adorabile Patty Pravo. Nella serata finale, il 6 gennaio, il pezzo fece da contorno alla canzone vincente, Scende la pioggia, cantata da Gianni Morandi, che tutti, a differenza di “Tripoli” oggi ricordano bene. Il testo è di Del Prete e Pallavicini, mentre la musica era stata scritta da quel Paolo Conte che in seguito divenne l’inconfondibile cantore retrò della nostalgia, e dell’esotismo nascosto, della provincia italiana degli anni 50.
Si sa che la canzone pop, specie quella d’autore, ha sempre un connotato sociologico, e dunque è interessante su queste pagine fare una breve analisi del testo e della musica, che gli autori, rivolgendosi a un’Italia schierata nelle case a guardare Canzonissima, costruirono certo per colpire, per lasciare un segno, anche nell’ascoltatore più distratto. In questo senso, una canzone può venire letta ccome un prodotto sociale, oltre che come un’opera creativa e poetica.
Intanto Tripoli 1969, tra squilli di tromba e imponenti sfiati di trombone, scanditi dai classici “zumpa pa pa” a marcetta, faceva il verso al celebre inno di battaglia “A Tripoli, bel suol d’amore”, cantato da Gea della Garisenda nel 1911, e che era stato scritto in occasione della guerra italo-turca.
Il testo, non certo dei migliori dell’epoca, sembra aver poco a che fare con il titolo, narra di una coppia italiana un po’ annoiata, colta insieme, probabilmente proprio in quel salotto anni 60 nel quale la tv del sabato sera echeggiava. Patty Pravo interpreta così in modo originale l’assenza mentale del partner: “In casa io e lui/Io non mi accorgo che fuori è inverno ormai/La stanza è tanto calda/Non penso mai/Che oltre la finestra per lui/In quella nebbia/C’è un’altra estate/Che porta un caldo/Un caldo un caldo/Lo vedo ma non c’è/È andato via da me/Sta raggiungendo Tripoli.”
Di queste prime parole colpiscono soprattutto due cose: i riferimenti al caldo estivo e torrido, che, evidentemente, dagli italiani veniva associato alle spiagge e alle sabbie africane della Libia, e la vicinanza della città di Tripoli all’immaginario del nostro paese, dato che il protagonista la sta “raggiungendo” facilmente, praticamente mentre lei canta. Un pò come Ibiza o le isole greche oggi, sono nei pensieri di “evasione” quotidiana dalla routine, Tripoli era per gli italiani della fine anni 60, una meta vicina e accessibile e non quella lontanissima che viene avvertita ora da tutti.
Quella Canzonissima era, del resto, condotta da Walter Chiari, frequentemente di casa a Tripoli in quegli anni, in coppia con una Mina inedita. Vivere a Tripoli era, in altre parole, come vivere in Italia, ma con il sapore dell’avventura.
Trattandosi poi del monologo di una donna riferito al suo uomo, e poi esteso a tutti gli uomini, sullo sfondo della sua semplice storia privata, non si può non contestualizzare ancora il contenuto del testo laddove recita: “se lo immagino lontano/Dove non so/In cerca di battaglie perché/Perché ogni uomo/Senza battaglie/Non può sentirsi un uomo”.
Se ne può dedurre che Tripoli e la Libia, per quanto ormai vicini, ci rimandavano a un’Italia un pò guerriera, un’Italia di uomini desiderosi di combattere le loro battaglie e di vivere le proprie esperienze e le proprie trasgressioni, mentre le loro donne, in stile fin troppo tradizionale, accettavano le loro “innocenti evasioni”, mentali e no. “E quando un uomo va a vivere di più/Le donne han solo lacrime/ Ma se ritornerà ferito lui lo sa/Che qui mi troverà/E io son già felice/Se penso che/In questa storia anch’io ci sarò”.
Il fatto che a cantare queste parole sia la trasgressiva Patty Pravo, che era proprio il tipico sogno delle “avventure” di quell’Italia – e che nel retro di quel 45 giri, in un altro pezzo, dichiara: “Lasciatemi amare chi voglio/Chi mai può saperlo più di me?/Domani non conta, è questo il momento, poi sarà quel che sarà” – rende l’idea del sottile intento commerciale di questa canzone.
Di “Tripoli 1969” colpisce così il riferimento stereotipato alle battaglie – chiarendo così il richiamo al “bel suol d’amore da rendere italiano al rombo del cannon” di “A Tripoli” – e al fatto che l’uomo probabilmente non può vivere senza fare a meno di una guerra. Quanta verità, però, visto quello che accade oggi a due ore di volo da Roma.
Di lì a poco arriverà Gheddafi e inizierà la battaglia per l’esistenza degli italiani della Libia. Eppure, oggi, mentre l’idea della guerra viene sdoganata in Europa, e i conflitti civili e politici continuano a martoriare il popolo libico, che è sempre più stanco di non ritrovare la sua serena e meritata, pacifica, quotidianità, con la mente e con il cuore continuiamo a raggiungere Tripoli, Bengasi, Leptis e Sabratha.
Di Andrea De Angelis, Direttore di Italiani di Libia
Pubblicato su Italiani di Libia 1/2024