Articolo pubblicato su Italiani di Libia 2-2023
Su Italiani di Libia cerchiamo di coltivare un bene prezioso per l’uomo. La memoria. Senza nostalgismi e senza inflessioni ideologiche, la memoria di quel che la Libia ha rappresentato nella vita di tante persone, e in quella delle loro famiglie, cerca di trovare qui il suo spazio. Questa memoria non potrebbe essere coltivata senza intrecciarsi con la storia, la storia della Libia, la storia dell’Italia e dell’Europa.
Nel leggere una testimonianza risalente al 1911, scritta da un viaggiatore svizzero, e riferita nel volume sulla “Posta in Libia” di Bruno Crevato Selvaggi e Piero Macrelli, si precipita così indietro di più di un secolo. Viene raccontata una storia, quella del “postino berbero”, che diventa, in questo racconto, anche la storia di tutti noi, colta nel momento in cui ci si rapporta alla propria terra, alla propria occupazione e ai principi che guidano le nostre azioni.
La consegna, qui mancata, di una lettera favorisce un incontro tra due mondi. L’europeo, ancora non arrivato all’oasi di Ghadames, la definisce “fuori del mondo” o “mondo dei dimenticati” o, probabilmente dei “morti al mondo”, considerando l’Europa, quel continente che di lì a poco sarebbe stato pronto a incendiarsi nell’inutil strage della prima guerra mondiale, il vero mondo dei vivi.
“Non vediamo l’ora – scrisse – di arrivare all’oasi tanto desiderata [quella di Ghadames, ndr] quando vediamo un berbero con un fucile a tracolla e una saccoccia in bandoliera. È il corriere postale che unisce Ghadames al mondo dei vivi. Mi domanda se ho una lettera da dargli o una commissione da affidargli. Alla mia risposta negativa, riprende il cammino con il suo passo elastico e infaticabile. La resistenza dei Berberi è strabiliante. Quest’uomo non aveva paura di marciare da solo nel deserto per quattro giorni, cioè più di 150 chilometri, senza incontrare anima viva. Non aveva con sé che un po’ di cibo; marciava quasi senza fermarsi, con solo qualche ora di riposo la notte. Avvolto nel suo burnus, sistematosi in qualche anfrattuosità della roccia, si rimette in forze per la tappa seguente. È sempre lo stesso uomo che percorre il tragitto, per un compenso veramente minimo. Ma la natura dei Berberi è così: per lui, correre nel deserto non è un lavoro; in quest’azione lui ha la coscienza della sua indipendenza, egli preferisce questo lavoro libero, che a noi pare così terribile, a una servitù continua che la sua natura fiera e indomabile non potrebbe sopportare. Quando cammina egli gioisce della propria libertà: a lui serve lo spazio degli orizzonti infiniti.”
Come non pensare che quella lettera sarebbe diventata oggi, 112 anni dopo, ovunque nel mondo, una email, o un post sui social, un messaggio whatsapp, tutti messaggi recapitati all’istante, e al fatto che il “postino berbero” trovò invece senso all’intera sua vita – scandita da quei quattro giorni ad andare e quattro a tornare – camminando senza sosta nel deserto, avvolto nel suo burnus, per recapitare la posta, e, dunque, le connessioni, i legami, la memoria tra le persone?
Come non pensare invece alla sorpresa provata al momento del suo arrivo nell’oasi, a scoprire che la vita ha assunto modalità completamente diverse, e si è impadronita comunque di uno specifico territorio, seguendo modalità e percorsi completamente diversi, riuscendo invece a stupire – per la bellezza dei palmeti e la diversità, umana e naturalistica – un viaggiatore?
Il 1911 segna anche l’inizio della guerra di conquista italiana, quella guerra che, esattamente un secolo dopo, nel 2011, incendiò nuovamente la Libia, senza riproporre ovviamente le inflessioni coloniali, ma all’insegna dello stesso “change regime”, che aveva segnato le cosiddette “primavere arabe” in Nordafrica.
Ospitare su questo giornale analisi e valutazioni storiche di diverso stampo è un proposito che alimenta la nostra memoria, nel momento in cui, dal 2022, una guerra incendia ormai anche l’Europa. La memoria è, in frangenti di grande cambiamento, fondamentale per trovare in noi delle certezze stabili. L’articolo di Vittorio Sciuto sull’agricoltura in quel luogo per me incantato – perchè natio, e mai più visitato da ben 55 anni – che è Sidi El Masri, ci ricorda la terra che l’agricoltura italiana rese fertile e coltivabile. Ci rammenta le 840 aziende agricole, i 4.000 poderi nei 33 Comprensori Agricoli che resero la Tripolitania quasi autosufficiente dal punto di vista alimentare, caratteristica che la Libia ha progressivamente perduto.
La recensione di Cristiano Rimessi sul racconto di Alessandro Spina introduce, in modo ficcante e acuto il tema della colonizzazione, tema “storico”, con inflessione politica, al quale la memoria degli Italiani di Libia, che qui ci proponiamo di continuare a coltivare, non consente né amnesie né nostalgie, ma racconto di eventi e di vita vissuta che per sua natura non si può ripetere.
Ma dov’è, dunque, che la storia e la memoria collettiva della vita vissuta di una comunità possono trovare una sintesi esemplare?
Nel 1801 nella sua analisi della filosofia di Fichte e Schelling, Hegel, per la prima volta utilizza un termine “Volksgeist”, lo spirito del popolo. Hegel si rifaceva nell’espressione a quello “Spirito delle Leggi” che Montesquieu aveva pubblicato nel 1748, nel quale il giurista francese chiariva come la storia abbia un ordine, che è strettamente condizionato dalla natura, dai costumi, dalla religione delle persone che la fanno. In una parola dallo spirito di una comunità.
La storia è dunque il risultato di un incontro, a volte di uno scontro tra “spiriti” di comunità diverse. E’ così che lo spirito di libertà del “postino berbero”, al quale “serve lo spazio degli orizzonti infiniti” si incontra con lo spirito occidentale, all’epoca alla ricerca dell’esotico e dello spazio vitale.
Lo spirito degli agricoltori italiani, con l’aiuto delle braccia locali, riuscì a strappare al deserto una terra che produsse ogni tipo di coltivazione.
Lo spirito di una comunità di donne e uomini si ciba dell’esperienza vitale e del suo incarnarsi, oppure – a volte – mette da parte le due cose e cerca di trovare senso nell’astrazione dalla realtà terrena, rifugiandosi nella fede. Comunque, la religiosità – di qualunque origine, anche quella laica – ha le sue radici e trova le sue intime energie nello spirito degli uomini e delle donne di una comunità. La religiosità – anche quella laica – sa costruire ritualità e tradizione, culto per i propri morti e amore per le proprie radici. In altre parole memoria.
Questo spirito è dunque necessario alla vita e al progredire della civiltà. Anzi è, come si dice, consustanziale ad essi. Senza spirito non vi sarebbe memoria. Se gli italiani di Libia non coltivassero un loro spirito, caratteristico e peculiare solo a loro, non riuscirebbero a mantenere viva la loro memoria. E senza memoria non vi sarebbe la sacra coltivazione di una sfera privata, mantenuta e protetta a dispetto dei drammi della storia, della politica, della guerra, della colonizzazione dell’Africa e quindi anche dei tratti più oscuri di una vicenda umanamente e storicamente virtuosa.
Senza spirito comune, senza memoria, senza sfera privata, non vi sarebbe del resto la costruzione di opere e significati, di quella rigogliosa agricoltura, di strade ed edifici, di commerci e ricchezza, come del perseguimento del benessere e di spazi di libertà personale.
Senza memoria e senza devozione per i nostri cari, come ha fatto chi mi ha preceduto, dedicando ampio spazio al Cimitero di Hammangi, lo spirito degli Italiani di Libia, verrebbe abbandonato.
Ed è uno spirito di cooperazione e collaborazione che vogliono essere mantenute e rinnovate, di ricerca di libertà e di spazio di orizzonti infiniti, di costruzione comune di benessere, di scambio e commercio di beni e conoscenza, vissuto un tempo in Libia, e oggi tenuto separato e diviso sulle due sponde del Mediterraneo, finché non sarà necessario.
In altre parole, il nostro spirito si nutre dell’incontro di persone e di significati differenti, di visioni religiose o laiche, che trovano nella vita vissuta di due popoli, di tante etnie e di tre diverse confessioni religiose, il loro senso e il loro più profondo significato.
Andrea De Angelis, Direttore di Italiani di Libia