L’amore per la Libia e per la città di Tripoli non si cancella dalla memoria. Malgrado la cacciata, a tratti violenta, della comunità ebraica dal Paese nel quale viveva da secoli.
Herbert Avraham Arbib, nato nella capitale libica nel 1945, vive in Israele dove è stato ricercatore nei campi dell’ingegneria aerospaziale, dell’energia e dell’ambiente. Il suo primo romanzo “Cielo Nero” (Salomone Belforte) narra, appunto della diaspora ebraica in Libia, attraverso gli occhi dell’autore e della sua famiglia.
Dalle pagine del libro viene fuori uno spaccato puntuale di quella comunità, viva e radicata a tal punto che solo le conseguenze della guerra dei 6 giorni, nel 1967, hanno potuto estirparla: “Avevo l’impressione che anche noi – ha detto Arbib in un’intervista all’ANSA – avessimo una storia, e che fosse giusto raccontarla. Per farlo mi sono ispirato al romanzo di Amos Oz ‘Una storia di amore e di tenebra’.
L’amore per la Libia, e per quel modo di vivere così unico, traspare dalle pagine del romanzo, biografico ma ricchissimo di accadimenti storici. Nel capitolo in cui descrive la città di Tripoli, ad esempio, Arbib parla di “una bella città [che] il governo italiano aveva trasformato da una cittadina addormentata in una città attraente […]. Il lungomare, la lunga passeggiata sul Mediterraneo calmo e limpido quasi tutto l’anno, cominciava dal castello turco e finiva alla periferia orientale della città, ed era affiancato da una larga strada decorata di palme” E poi la vita a Tripoli, quell’irripetibile meltin pot di culture e religioni immerso nel benessere degli anni Sessanta: “Sulla spiaggia correvano allegri ragazze e ragazzi in costume da bagno, si dondolavano sull’altalena. […] Nel Caffè sulla spiaggia scorrazzavano camerieri in giacca bianca, pantaloni e cravatta a farfalla neri e un tovagliolo bianco sul braccio sinistro, fra clienti eleganti”. Finché la guerra tra Israele ed Egitto prima, e Gheddafi poi, non distrussero quel sogno sociale e interreligioso.