di A. Sinagra

1. L’ultimo evento in senso cronologico nella evoluzione dei rapporti italo – libici è costituito dalle intese raggiunte il 4 luglio 1998 in sede di Commissione mista italo – arabolibica, istituita con l’Accordo bilaterale di cooperazione economica scientifica e tecnica firmato a Roma il 19 gennaio 1974.

Tali intese si segnalano specificamente per il fatto che esse vanno anche oltre la attuazione di quanto convenuto con il citato Accordo del 19 gennaio 1974, e dunque per molti aspetti si pongono come nuovi accordi tra il Governo italiano e quello libico. Sotto tale prospettiva le intese raggiunte il 4 luglio 1998, per quel che esse innovano rispetto all’Accordo bilaterale del 19 gennaio 1974, e per quanto esse sotto diversi aspetti appaiano riconducibili alla previsione dell’art. 80 della Costituzione, sembrano giustificare consistenti perplessità in ordine al fatto che le medesime siano state sottratte a qualsiasi procedura di ratifica.
Ancor più consistenti perplessità nel senso indicato suscita il “Comunicato congiunto” diffuso nello stesso giorno del 4 luglio 1998 all’esito della riunione della Commissione mista. Al di là del “nomen” dato al documento, esso si pone nella sua natura intrinseca come un vero e proprio Accordo internazionale con forte caratterizzazione e contenuto politico dal quale derivano ben precisi obblighi per la parte italiana.
Va detto subito, in realtà, che dalla lettura di tale ultimo documento colpiscono due circostanze: la prima è il carattere assolutamente squilibrato del contenuto dell’atto che, lungi dalla sinallagmaticità di un accordo vero e proprio , vede solo la parte italiana assumere delle obbligazioni; non la parte libica. La seconda circostanza, che solo apparentemente puÚ essere qualificata come formale ma che viceversa nella sostanza è indicativa di una ben precisa scelta politica di unilaterale assunzione di obbligazioni da parte italiana, è che mentre il Governo italiano assume le sue obbligazioni confermandole nella loro immediata operatività e nella altrui pretesa di loro immediata esigibilità con la forma indicativa delle espressioni verbali (“il Governo italiano si impegna”, “il Governo italiano concede”), le solo apparenti obbligazioni assunte dalla parte libica vengono ancor più sfumate nei loro contenuti e nella loro percettività dalla forma futura delle espressioni verbali (“lo Stato libico permetterà”).
Rinviando ad un momento successivo qualche rilievo in ordine ai contenuti dei documenti fin’ora citati – contenuti che per molti aspetti non sfuggono ad un giudizio anche di comicità ancorchÈ, si spera, involontaria – per valutare se con le intese da ultimo raggiunte possa seriamente parlarsi di “normalizzazione” nei rapporti italo – libici cosÏ come in modo tanto trionfale quanto ingiustificato si pretende da parte dei responsabili della nostra politica estera, occorre ripercorrere – seppur molto sinteticamente e sulla base degli atti internazionali – l’evoluzione dei rapporti italo – libici dal momento della occupazione militare britannica, all’esito dell’ultimo conflitto, della Cirenaica e della Tripolitania, fino ad oggi.
Tale esame retrospettivo appare assolutamente necessario per verificare quanto di squilibrato vi fosse da una parte o dall’altra, in senso positivo o negativo, nei rapporti italo – libici, e che avesse giustificato una “normalizzazione” cosÏ come vengono oggi presentate le intese raggiunte lo scorso anno. Tali intese, per il loro contenuto quasi esclusivamente concessorio da parte dello Stato italiano allo Stato libico, lascerebbero supporre che la precedente sistemazione dei rapporti fosse sbilanciata a favore e vantaggio dello Stato italiano.

2. Questo è il punto centrale che va verificato anche per quel che specificamente riguarda le rivendicazioni patrimoniali e non patrimoniali dei cittadini italiani espulsi dalla Libia nel 1970, previa confisca dei loro beni.
L’atto fondamentale nella sistemazione post – bellica dei rapporti italo – libici è costituito dall’Accordo tra il governo della Repubblica Italiana e il governo del Regno Unito di Libia (con relativi scambi di note) concluso a Roma il 2 ottobre 1956.
Si è detto da più parti, e ancora oggi da parte di qualcuno, che tale Accordo era troppo favorevole agli interessi italiani.
Al di là delle incongruenze di un tale giudizio nei riguardi di un accordo liberamente concluso e accettato dalle due parti, deve dirsi che, a tutto ammettere, non risulta esistente nel diritto internazionale una simile ragione o motivazione per disattendere e violare i patti liberamente e regolarmente conclusi.
NÈ puÚ dirsi seriamente che gli eventi verificatisi a seguito del colpo di Stato del 1ƒ settembre 1969, che pose fine alla monarchia senussita, possono essere intesi come denuncia degli accordi conclusi da quello Stato durante il precedente regime. Ne farebbe difetto la forma poichÈ non vi è mai stato un atto ufficiale in tal senso da parte libica, e ne farebbe difetto la sostanza poichÈ in larghissima misura le previsioni contenute nell’Accordo italo – libico del 1956 avevano avuto attuazione e dunque si erano esaurite nei loro effetti, con la conseguenza che ben poco o niente poteva costituire oggetto di denuncia da parte delle nuove autorità rivoluzionarie libiche.
In secondo luogo deve ricordarsi che l’Accordo italo – libico del 1956 si poneva, come risulta dal suo preambolo e dalla legge italiana di autorizzazione alla ratifica, in rapporto di stretta esecuzione di quanto stabilito con la Risoluzione A/1758 del 19 dicembre 1950 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che recava ben precise disposizioni economiche e finanziarie relative al costituendo Stato indipendente di Libia; dunque, quanto di pretesamente sbilanciato a favore dello Stato italiano si volesse rinvenire nell’Accordo italo – libico del 1956, altro non è che la esatta esecuzione di quanto stabilito con la citata Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Infine, e da ultimo, deve pur dirsi che il contenuto di detta Risoluzione delle Nazioni Unite muoveva da una considerazione ben precisa dello stato di fatto esistente al momento in Libia e di quanto in Libia aveva fatto il Governo italiano fin dal 1912 in termini di sviluppo economico e di promozione sociale, oltre a quanto era stato fatto in termini di organizzazione amministrativa e istituzionale anche con riguardo ai rapporti tra la Libia e l’Italia: rapporti che potevano a giusto titolo essere qualificati non già in termini di colonizzazione, bensÏ più esattamente in termini di integrazione tra lo Stato italiano e la Libia. Si pensi, a tacere d’altro, ai provvedimenti in materia di cittadinanza rappresentati dal D.L. luogotenenziale del 1ƒ giugno 1919, n. 931, relativo all’ordinamento della Tripolitania; dal RD legge 31 ottobre 1919 n. 2401 relativo all’ordinamento della Cirenaica; dalla legge 26 giugno 1927, n. 1013, e dalla successiva legge di modifica del 3 dicembre 1934, n. 2012.
Conseguentemente, l’Accordo italo – libico del 1956, dando puntuale esecuzione alla Risoluzione del 19 dicembre del 1950 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, non puÚ in alcun modo ritenersi, quanto al suo contenuto, sbilanciato a favore degli interessi italiani poichÈ esso, come anche la più volte citata Risoluzione, teneva giustamente conto (su ciÚ convenendo anche la parte libica) di quanto in termini finanziari, organizzativi e di promozione sociale ed economica era stato fatto in precedenza dal Governo italiano in favore delle popolazioni della Cirenaica e della Tripolitania. E di tale consistente sviluppo della Libia promosso dai governi italiani, pre – fascisti e fascisti tenne ben conto la Risoluzione dell’ONU nel disporre, nel suo terzo considerato, che la formale costituzione dello Stato libico indipendente doveva e poteva avvenire al più tardi il 1ƒ gennaio 1952.
Nella storia controversa delle colonizzazioni non sembra rinvenibile una situazione corrispondente che vede una ex colonia potersi costituire nella forma autonoma indipendente dello Stato a cosÏ poco tempo dalla cessazione del cosiddetto regime coloniale.

3. Da quanto fin’ora esposto deve trarsi allora la conclusione che nulla da “normalizzare” vi era nei rapporti italo – libici a fronte di quanto già concordato con il Trattato del 2 ottobre 1956, sotto la pretesa motivazione di uno sbilanciamento di quelle intese a beneficio dello Stato e dei cittadini italiani che avevano profuso e profondevano il loro lavoro e il loro impegno nelle regioni della Cirenaica e della Tripolitania.
Lo Stato libico si era inequivocabilmente impegnato al riconoscimento e al rispetto dei diritti civili, e segnatamente dei diritti di proprietà, dei cittadini italiani presenti sul territorio. Già la citata Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, all’art. VI, inequivocabilmente disponeva che “i beni, i diritti e gli interessi dei cittadini italiani, comprese le persone giuridiche italiane in Libia, saranno rispettati”, e questo è il contenuto essenziale, per quanto ora interessa, dell’Accordo italo – libico del 2 ottobre 1956.
L’espropriazione illegale e selvaggia di questi beni, diritti ed interessi che seguÏ da lÏ a poco agli eventi del 1ƒ settembre 1969, con la successiva espulsione dei cittadini italiani titolari di quei beni, diritti e interessi nella sua illegalità puÚ essere valutata sotto un differente punto di vista: come violazione flagrante e violenta della citata Risoluzione delle Nazioni Unite e degli accordi italo – libici del 2 ottobre 1956 ovvero come generalizzata ed illegale espropriazione da parte dello Stato libico dei beni, diritti ed interessi degli stranieri. Tale espropriazione è dal diritto internazionale qualificata come illecita e per essa, a tutto ammettere, il governo espropriante avrebbe dovuto corrispondere un indennizzo pari al valore attuale e potenziale dei beni, diritti ed interessi in questione.
Premesso che non risulta che mai da parte delle autorità libiche sia stata formulata una pretesa di originaria illegale acquisizione da parte dei cittadini italiani di quei beni, diritti ed interessi (come in via eccettuativa rispetto alla generale garanzia e riconoscimento di tutela di quei beni, diritti ed interessi, prevedeva il citato art. VI della Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite) che nell’Accordo italo – libico del 1956 vennero accertati sulla base di una ben precisa e meticolosa documentazione, deve ancora ribadirsi che da parte del Governo italiano non si ritenne per ragioni politiche, differentemente valutabili, di sottoporre ad arbitrato la situazione determinatasi con i provvedimenti adottati dalle autorità rivoluzionarie libiche a seguito degli eventi del settembre 1969, cosÏ come prevedeva l’art. 17 dell’Accordo italo – libico del 1956. NÈ il Governo italiano ritenne, per le medesime valutazioni politiche che ora si omette di commentare, di denunciare nella sede delle Nazioni Unite quei provvedimenti delle autorità libiche cosÏ palesemente violativi della Risoluzione dell’Assemblea Generale del 19 dicembre 1950.
Neppure ritenne il Governo italiano, e nÈ ha fino ad ora ritenuto, di far valere presso le autorità libiche, e a tutela dei suoi cittadini, l’obbligo di quelle autorità di risarcire quei beni, diritti ed interessi cosÏ illegalmente e indiscriminatamente confiscati con la legge libica del 21 luglio 1970 sulla base – se non degli Accordi del 2 ottobre 1956 – di una ben precisa previsione del diritto internazionale generale.
Al di là di ogni valutazione sulle azioni o sulle omissioni di politica estera italiana nei confronti della Libia, da quanto fin’ora esposto possono trarsi due conclusioni. La prima è l’obbligo sostitutivo, pieno e ineludibile, del Governo italiano di risarcire in misura integrale e comprensiva del valore degli avviamenti commerciali, degli interessi e della svalutazione monetaria, quei beni, diritti e interessi perduti dalla Comunità italiana presente in Libia e poi da lÏ espulsa con la forza.

4. Al riguardo, e per quel che specificamente attiene alla ormai trentennale ed ancora insoluta vicenda dei nostri connazionali forzosamente rimpatriati dalla Libia, nelle sue connessioni di diritto internazionale, deve dirsi che il problema complessivo si pone sotto il titolo, ben conosciuto agli internazionalisti, della protezione diplomatica dello Stato nei confronti dei propri cittadini e dei loro interessi all’estero. Certo, in linea generale l’istituto giuridico della “protezione diplomatica” riflette, come anche hanno avuto modo di precisare le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione nel famoso caso Neroni, non già un diritto del cittadino, bensÏ una potestà e cioè una facoltà dello Stato di appartenenza della persona in ragione del rapporto di cittadinanza.
Ma, tutte le volte in cui i diritti e gli interessi del cittadino all’estero vengono riconosciuti e garantiti dallo Stato con un Accordo internazionale – e, per quel che ora interessa, e al di là della Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 19 dicembre 1950, con l’Accordo italo – libico del 2 ottobre 1956 – lo Stato ha un obbligo nei confronti dei propri cittadini di proteggere le loro persone e i loro diritti e interessi (e questi ne hanno un corrispondente diritto) nei confronti dello Stato estero, specialmente quando nella definizione dei rapporti con quest’ultimo si prevede la possibilità di ricorrere allo strumento arbitrale.
Nulla di tutto questo e nulla ha fatto lo Stato italiano in difesa dei suoi cittadini illegalmente espropriati e forzosamente rimpatriati dalla Libia.
Da qui la seconda conclusione e cioè l’obbligo pieno e indiscutibile dello Stato italiano di risarcire esso, in via sostitutiva e in misura intera, i beni, i diritti e gli interessi dei nostri connazionali.
In questa direzione si sono avuti, come è noto, diversi provvedimenti normativi italiani a beneficio dei cittadini rimpatriati dalla Libia, e ciÚ conferma il punto di vista fino ad ora esposto. Si tratta, tuttavia, di provvedimenti del tutto insufficienti poichÈ la cifra globale corrisposta fino ad oggi agli aventi diritto, a circa trent’anni dalla confisca, ammonta a circa 288 miliardi (mi riferisco ai provvedimenti n. 1066 del 1971 e n. 135 del 1985) e cioè non raggiunge nemmeno il valore delle perdite subite e stimate al 1970 in circa 400 miliardi di lire italiane.

5. L’Accordo italo – libico del 2 ottobre 1956, per sua espressa statuizione, dichiarava che con esso era concluso e definito ogni aspetto contenzioso e rivendicativo nei rapporti tra l’Italia e la Libia.
Per altro verso, in nessun modo puÚ ricavarsi – se non facendo ricorso ad un tragico umorismo – alcun profilo di legittimità al generalizzato provvedimento libico di confisca del 21 luglio 1970 nella parte in cui questo fonda la sua pretesa di legalità sulla necessità di “restituire al popolo libico le ricchezze dei suoi figli e dei suoi avi usurpate dagli oppressori”, e cioè da quei coloni che con il loro lavoro e il loro sacrificio, già prima dell’avvento del fascismo, promossero lo sviluppo economico e sociale di quelle regioni recandovi il segno della civiltà e dando ai suoi stessi abitanti dignità di popolo.
In tale situazione è ben curioso ed amaro constatare come il Governo italiano cosÏ generosamente prodigo verso chi, spinto da destini avversi, cerca e ottiene in Italia dignità umana e protezione, sia talmente sordo nei confronti di chi, con il proprio lavoro e i propri sacrifici, in Libia e altrove ha onorato il proprio Stato di appartenenza e il suo governo nelle sue successioni storiche. Si spendono miliardi per l’assistenza ai profughi di ogni più differente provenienza geografica, ma a distanza ancora di trent’anni non vengono appieno risarciti ai nostri concittadini rimpatriati dalla Libia quei beni, diritti ed interessi che il Governo italiano, nella consapevole omissione di ogni pur dovuta azione internazionale di tutela e nella indiscussa vigenza di Accordi internazionali, ha ritenuto di sacrificare a beneficio di una politica estera le cui finalità sono difficilmente comprensibili, e a beneficio di più rilevanti interessi economici.
Da quanto da ultimo esposto emerge il problema di fondo: con gli Accordi del 1998 sarebbero stati “normalizzati” i rapporti italo – libici. Ma cosa vi era da “normalizzare” se con il Trattato del 1956 ogni questione era stata definita ed in modo in verità molto generoso nei confronti della Libia alla quale l’Italia trasferiva, tra l’altro, tutti i suoi beni del demanio e del patrimonio indisponibile e disponibile e anche delle sue aziende ed enti autonomi?
Forse vi era da “normalizzare” il risarcimento dovuto ai nostri profughi dalla Libia e non a caso la citata legge n. 1066 del 1971, nel disporre un acconto sugli indennizzi per i beni perduti, soprassedeva a corrispondere la rimanente parte, “in attesa di accordi internazionali”.
I sopraggiunti accordi internazionali non affrontano minimamente il problema del pieno risarcimento dei nostri concittadini rimpatriati dalla Libia.

6. Dunque ci troviamo di fronte ad un Governo inadempiente e ad un Parlamento che promette ma non onora le sue promesse.
Al di là delle ancora insoddisfatte e legittime aspettative dei nostri concittadini, le intese italo – libiche di recente intervenute lo scorso anno sono addivenute sul piano propriamente politico ad una “normalizzazione” che francamente giustifica ogni dubbio ed ogni perplessità. In particolare, e senza addentrarci in un’analisi dettagliata di quanto convenuto all’esito della riunione del 4 luglio 1998 della Commissione mista italo – libica che, tra le altre cose, fa stato di progressi nel settore turistico del tutto ignoti alla esperienza corrente, e che annuncia la conclusione in materia di un Accordo del cui testo peraltro non si dispone, quel che sorprende è il richiamo ai diritti dell’uomo che anche la parte libica dichiara di voler rispettare.
Premesso che non risulta nessuna particolare attitudine e disponibilità da parte delle autorità libiche al rispetto dei primordiali diritti e libertà fondamentali della persona umana (a cominciare dalle libertà politiche e religiose), è appena il caso di rammentare a tale proposito che le autorità libiche ancora oggi precludono l’ingresso sul loro territorio, e anche solo per finalità meramente turistiche, ai cittadini italiani espulsi nel 1970; e ciÚ nonostante che nel richiamato “Comunicato congiunto” del 4 luglio 1998, si legge che “lo Stato libico, a sua volta, permetterà ai cittadini italiani interdetti dall’ingresso nel proprio territorio, per delle precedenti disposizioni, di entrare nel territorio libico per motivi di turismo, visita o lavoro”: le autorità libiche, dunque, non fanno in tempo a concludere un accordo che già lo violano e come esempio di “normalizzazione” dei rapporti bisogna dire che non è male. E non è certo sufficiente la lettera di postume e vuote assicurazioni del Ministro Dini inviata in un caldo sabato d’agosto alla Presidente della Associazione dei Rimpatriati dalla Libia, a far sperare nella futura “normalizzazione” di tale aspetto dei rapporti italo – libici che cosÏ direttamente attiene al rispetto della persona umana e ad un reale spirito collaborativo da parte della nostra ex “quarta sponda”.
La verità è che nei negoziati per la “normalizzazione” dei rapporti italo – libici puÚ rinvenirsi soltanto una elencazione di impegni unilateralmente gravanti sullo Stato italiano e la lettera del Ministro Dini curiosamente appare il giorno successivo a quello in cui sull'”Italy Daily” dell'”Herald Tribune” compariva un articolo di Cristopher Emsden non certo elogiativo della “politica estera” italiana nei confronti della Libia e ancora meno elogiativo delle omissioni del Governo italiano nei confronti dei rimpatriati dalla Libia.
Bisogna pur dire che non solo questa non è politica estera, ma non è neppure un modo accettabile di considerare e proteggere le umanissime aspirazioni di chi chiede solo di poter rivedere per pochi giorni i luoghi dove è nato, dove ha vissuto e dove ha lavorato. E’ solo il metodo di un deplorevole inganno e di una ancor più deplorevole ipocrisia da parte di chi finge di credere al dichiarato proposito di rispetto dei diritti dell’uomo da parte libica e nella realtà crede di acquietare la coscienza con una tardiva missiva ferragostana.
Nonostante tutto, se questo è il prezzo che si ritiene di dover pagare per conservare o conseguire risultati economici di particolare grandezza (e basterebbe pensare alle concessioni petrolifere dell’Agip o agli enormi interessi economici che ruotano intorno al gigantesco costruendo gasdotto che unirà la costa libica a quella siciliana, ovvero pensare all’eventuale commessa all’Italia per la costruzione di 2.187 chilometri di ferrovia lungo la costa libica) con tutti gli indubbi vantaggi che ciÚ comporta e comporterà per lo sviluppo della nostra economia nazionale e per il pieno utilizzo delle nostre tecnologie e della nostra forza – lavoro, allora è giusto che di quei vantaggi beneficino non soltanto questa o quell’altra impresa italiana e, in conclusione, la collettività nazionale, ma prima di ogni altri i nostri concittadini profughi dalla Libia che ancora attendono il soddisfacimento dei loro indiscussi diritti.
Al contrario, come ricorda Emsden nel suo articolo su “Italy Daily” dell'”Herald Tribune” dell’8 agosto 1999, sembra che il Ministro Dini abbia dichiarato che la questione delle proprietà dei rimpatriati non era di massima priorità.

7. La verità è che la tanto decantata “normalizzazione” non è altro che una resa incondizionata, morale e politica, dell’Italia nei confronti di un paese al quale l’Italia dette non solamente ordine e benessere ma, nel 1934, il suo stesso nome di Libia.
A parte la amara constatazione che il verbale della riunione della Commissione mista italo – libica del 4 luglio 1998 evidenzia gli infruttuosi tentativi di parte italiana di intessere utili ed effettivi rapporti con le autorità libiche, come si ricava dai diversi accordi proposti da parte italiana con riguardo a differenti settori e per i quali la controparte libica si è semplicemente riservata di far conoscere il suo punto di vista senza neppure indicare un termine, è dal “Comunicato congiunto” dello stesso giorno 4 luglio 1998 che si puÚ avere una misura precisa del tipo di “normalizzazione” dei rapporti che è stato conseguito.
Si rammentano le “ferite ancora ricordate da molti libici” a causa della “colonizzazione italiana”. Non si precisa di quali ferite si tratta e non si ricorda che l’Italia in quelle regioni, prima sottoposte al dominio ottomano, portÚ la civiltà delle sue leggi, il sacrificio del proprio lavoro, i suoi ordinamenti amministrativi, l’istruzione generalizzata , l’assistenza sanitaria e trasformÚ in larga misura, con l’opera dei suoi coloni, lande desertiche in campi rigogliosi. E come l’antico console resse con l’imperio il popolo e nella pace introdusse il costume e le regole affratellando nella comune cittadinanza e in un comune destino un popolo che mai fu ritenuto sottomesso, ma fu ritenuto fratello; di esso ne fu rispettata la lingua, gli usi e la religione nel gesto simbolico della spada impugnata in difesa dell’Islam.
Nonostante ciÚ l’Italia di oggi invita la Libia “a superare il passato”.
Attingendo anche a profili di indubbia comicità di tale spessore da far dubitare che essa sia stata involontaria, “la Libia invita l’Italia a non ripetere in futuro” il deprecato passato e l’Italia promette che “non si verificheranno atti ostili di qualsiasi origine dall’Italia verso la Libia”.
E ancora: “il Governo italiano esprime il proprio rammarico per le sofferenze arrecate al popolo libico a seguito della colonizzazione italiana”. Il passo qui si presta a una dubbia interpretazione nel senso che nel prevedere di seguito che l’Italia “si adopererà per rimuoverne per quanto possibile gli effetti”, è lecito pensare che si alluda alla demolizione delle strade, dei porti, degli ospedali, delle scuole, dei poderi, delle opere di irrigazione e di quant’altro fu realizzato “a seguito della colonizzazione italiana” per provocare le lamentate “sofferenze arrecate al popolo libico”.

8. Nello specifico, raggiungendo un insolito mix tra l’ironia e la tragedia, l’Italia si impegna “a ricercare, con tutti i mezzi disponibili, i cittadini libici allontanati coercitivamente, all’epoca” dalla Tripolitania e dalla Cirenaica: siamo nel 1912 e calcolando un’età media degli “allontanati coercitivamente” di 25 anni, questi dovrebbero avere oggi mediamente 112 anni di età. Il Ministero degli Affari Esteri italiano ci farà sapere quanti ne sono stati rintracciati.
Ma vi è la questione poi della ricerca in Italia dei discendenti di costoro i quali evidentemente si accasarono in Italia o altrove e questi eventuali discendenti evidentemente o si sono perfettamente integrati in Italia o non vogliono ritornare in Libia per intuibili motivi, ovvero – per meno intuibili motivi – si nasconderebbero e non si vogliono far trovare. Tuttavia, questa Italia, questa deplorevole Italia, ne ritiene necessaria la ricerca “per restituire riconoscimento, materiale e morale, ai loro familiari – (che dovendo essere ragionevolmente gli ascendenti dovrebbero avere mediamente oggi 140 anni di età ed essere in vita per ricevere il promesso riconoscimento materiale) – e al popolo libico.”
Poi vi è il problema dello sminamento dei campi minati, e questo è un problema serio e in parte reale ma che riguarda anche e in pari misura il Regno Unito di Gran Bretagna la cui opera di minamento in Libia durante la guerra fu ben più consistente di quella italiana.
NÈ le autorità libiche hanno fino ad ora indicato e documentato quando, quanti e chi dei cittadini libici abbiano subito lesioni a seguito dell’esplosione di mine. Nonostante ciÚ, l’impegno finanziario che assume il Governo italiano con le intese di cui ora si discute è gigantesco e si prevede anche la costituzione in forma societaria e con capitali italiani di un “Fondo sociale” finanziato dall’Italia ma presieduto da un cittadino libico.
In finale, come nel crescendo dei fuochi pirotecnici, vi è l’aspetto storico – culturale e dunque “L’Italia si impegna a restituire alla Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista, tutti i manoscritti, reperti, documenti, monumenti e oggetti archeologici trafugati in Italia durante e dopo la colonizzazione italiana della Libia”. Al riguardo, deve dirsi con molta franchezza che non puÚ consentirsi una cosÏ deliberata offesa non tanto al prestigio nazionale italiano del quale nessuno ormai più si occupa, quanto all’intelligenza media dei cittadini: non esistono “manoscritti, reperti, documenti” riconducibili o meno ad una pretesa, e allora certo inesistente, cultura libica. E quanto poi ai “monumenti e agli oggetti archeologici” essi sono quelli che hanno segnato l’espandersi della civiltà di Roma ed essi sono in Libia e là essi devono rimanere, come a Leptis Magna e in tanti altri luoghi della Cirenaica e della Tripolitania, a testimonianza di quella prima grandiosa opera di colonizzazione condotta da Roma in lande desertiche e allora pressocchè disabitate.

9. In conclusione, il Governo italiano si impegna anche a concedere, nella misura compatibile con gli obblighi derivanti dalla sua appartenenza all’Unione Europea, “ai cittadini libici il diritto di godere dei privilegi riconosciuti dalla legislazione italiana all’epoca della colonizzazione”. Dunque, l’infame colonizzazione italiana elargiva privilegi e benefici alle popolazioni libiche e tra questi, e per prima, come pure si è ricordato, la pari cittadinanza italiana. A fronte di questo si disconoscono ancora ai profughi i loro sacrosanti diritti e ad essi si preclude ancora oggi, nonostante l'”impegno” libico contenuto nel ricordato “Comunicato congiunto”, la possibilità di recarsi in Libia con il solo visto turistico. Questa è la “normalizzazione” dei rapporti italo – libici come è stata voluta dal Governo italiano.
La verità triste è che non c’è più governo e non c’è più Italia.

Il Professor Avv. Augusto Sinagra è Ordinario di Diritto Internazionale presso l’Università di Roma “La Sapienza”