Il 27 giugno 1980, un venerdì d’inizio estate, il volo Itavia 870 precipitava in mare al largo di Ustica. A bordo, 81 persone: nessun superstite; solo 42 corpi vennero recuperati. A 45 anni da quella notte tragica, la ferita resta aperta. Le inchieste, le sentenze, le omissioni e i silenzi hanno trasformato quel disastro in uno dei più intricati e dolorosi misteri della Repubblica Italiana.

Negli anni, l’ipotesi più accreditata è diventata quella di un vero e proprio atto di guerra: il DC-9 Itavia sarebbe stato abbattuto accidentalmente durante un’operazione militare nei cieli del Tirreno. Uno scontro tra caccia francesi e americani all’inseguimento di un Mig libico. Infatti, secondo alcune ricostruzioni emerse da fonti giornalistiche e testimonianze, in quegli anni, era frequente che Mig libici sorvolassero lo spazio aereo italiano senza essere autorizzati: si recavano in Jugoslavia per addestramenti e riparazioni grazie a un accordo segreto, ben noto ai nostri servizi di intelligence e, di fatto, tollerato dal governo italiano – una condotta che con ogni probabilità non mancò di irritare l’alleato americano. A rafforzare questa pista contribuì, poco tempo dopo la strage, il ritrovamento in Calabria – sulla Sila – del relitto di un Mig-23 libico, precipitato in circostanze mai del tutto chiarite e compatibile con lo scenario appena citato.

Un’ipotesi che ha consolidato la cosiddetta “pista libica”, suffragata da intercettazioni, documenti desecretati e testimonianze militari. Ma la verità giudiziaria è ancora parziale. Pur non essendo mai stati identificati i responsabili, diverse sentenze civili e atti giudiziari convergono sull’ipotesi che l’aereo fu abbattuto da un missile, verosimilmente lanciato nel contesto di un’operazione militare. Restano le condanne dello Stato italiano per non aver garantito la sicurezza dei cieli e per aver ostacolato le indagini.

I rapporti tra Italia e Libia, già tesi, si incrinarono ulteriormente negli anni successivi. Eppure, l’interdipendenza tra i due Paesi era – e resta – forte: energetica, economica, ma anche storica. Gli interessi italiani in Libia affondavano le radici nell’epoca coloniale ed erano proseguiti nel dopoguerra con la presenza di una nutrita comunità italiana nel Paese, la cui permanenza fu formalmente garantita dal Trattato bilaterale del 1956, siglato come tappa fondamentale nei rapporti tra i due Paesi dopo l’indipendenza libica del 1951. Nonostante tale garanzia, la collettività italiana, nel 1970, fu brutalmente espulsa da Moammar Gheddafi: circa 20.000 italiani furono costretti a lasciare il Paese, perdendo beni, case e attività. La strage di Ustica e l’espulsione degli italiani dalla Libia sono due eventi, evidentemente, distinti ma connessi nel contesto geopolitico degli anni Settanta e Ottanta. Entrambi parlano di una relazione pericolosa e opaca tra Italia e Libia, in cui a pagare il prezzo sono stati civili innocenti: passeggeri di un volo che persero la vita e famiglie italiane strappate dalle loro case.

La nostra Associazione ha spesso sollecitato lo Stato italiano a fare chiarezza sul passato e a riconoscere la dignità e il dolore dei suoi cittadini. Non solo sul piano simbolico, ma anche giuridico. E nel ricordare Ustica, l’AIRL – unendosi in questo triste giorno all’Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica – richiama anche l’urgenza della memoria condivisa, affinché tragedie come queste non restino sepolte sotto la polvere dell’oblio.

Oggi in tanti si fermano per ricordare. Il Museo per la Memoria di Ustica, a Bologna, con i resti del DC-9 esposti in silenziosa testimonianza, accoglie familiari, cittadini e istituzioni. Le loro voci, dopo 45 anni, chiedono ancora verità, giustizia e trasparenza, così come le tante famiglie rimpatriate dalla Libia attendono il riconoscimento pieno del dramma da loro vissuto. Non basta ricordare: oggi, più che mai, è tempo di assumersi la responsabilità del passato, perché senza giustizia, le ferite della storia restano aperte.